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Stalin. Ha perso, anche se ha vinto
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Dallas ’63, oswald non era solo

Una foto di J. F. Kennedy, un attimo prima di essere assassinato a Dallas, e la prima pagina del Daily Mirror del giorno seguente

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UNO DEI MAGGIORI ABBAGLI DELL’UMANITÀ, SPIEGATO SEMPLICEMENTE DAL PUNTO DI VISTA TECNICO.

Come sovente accade a tutti quanti noi durante il passare del tempo, un’idea fissa o, per meglio dire, un tarlo, inizia a sfarfallarci nella mente e continua imperterrito a perseguitarci, sia di giorno che di notte.

E più andiamo avanti a cercare di mettere a fuoco una data situazione e più ci ritroviamo avviluppati in un vero e proprio ginepraio, fin quando, stufi di lambiccarci inutilmente il cervello, prendiamo il toro per le corna e facciamo i conti con il maledetto “tarlo”.

È quanto Nicola Bandini, dopo aver passato diversi anni a ripensarci, ha deciso di fare, mettendo a frutto la sua grande conoscenza delle armi e della balistica in genere, per dare una spiegazione esaustiva e convincente al più grande abbaglio che la storia recente abbia sottoposto alla nostra attenzione.

Come lui stesso dice, nell’omicidio Kennedy c’era sempre stato un qualche cosa “fuori posto”, che non gli permetteva di avere pace con la propria coscienza e conoscenza, motivo per il quale, armato della sua notevole conoscenza nel settore armi, e forte di una lunga carriera giornalistica, ha deciso di “vederci chiaro”.

Ed è nata così un’inchiesta puntuale ed esaustiva che, con molta probabilità, potrebbe mettere la parola fine ai fiumi di inchiostro che sono stati utilizzati per cercare di spiegare quello che non aveva assolutamente bisogno di essere spiegato, se non per motivi strettamente politici o di interessi occulti.

La parola “fine” a questa querelle ormai sessantennale si può dire che sia stata messa, anche se sono convinto che ci sarà sempre qualcuno pronto a “inventarsi” qualche lambiccamento cerebrale pur di non riconoscere una realtà che, in fondo, è estremamente semplice e sotto gli occhi di tutti.

Luca Bandini

Ricordo ancora vivamente l’agitazione e il senso di sgomento che circondava la mia vita di bambino di sei anni, nei giorni che seguirono l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy. Negli anni a seguire, con la vita adulta, le letture, le ricostruzioni televisive e cinematografiche, mi ha sempre accompagnato un senso di fastidio, un disagio sottile che si accresceva con il tempo, soprattutto mano a mano che mi appassionavo alle armi e alla balistica. Qualcosa mi sfuggiva: la storia riconosciuta ufficialmente dal «Rapporto Warren» non quadrava, troppi ricercatori, esperti e giornalisti si accanivano nel dipingere scenari di mafia, di petrolieri texani, di avversari politici, dimenticandosi che la verità era lì davanti agli occhi di tutti. Come un magnifico anfiteatro greco, sospesa tra scenografia, allegoria e realtà, la piazza Dealey di Dallas, Texas, vive oggi esattamente come allora, immutata sino nel più piccolo dettaglio architettonico. L’assassinio, che vi è stato messo in scena il 22 novembre 1963, è stato ideato da uomini, portato a termine da uomini, con mezzi e procedure tipiche degli uomini: la dinamica materiale di quell’evento pertanto era dinanzi agli occhi di tutti, bisognava solo saperla cogliere.

Dopo il primo viaggio a Dallas anni addietro, mentre percorrevo a lenti passi quella piazza, le mie convinzioni cominciarono a trovare irresistibile appoggio, spronandomi ad andare avanti nella ricerca. Sono tornato in quella piazza a distanza di anni altre due volte, verificando, misurando, soprattutto cercando di calarmi anima e corpo nei panni di quegli uomini, che rappresentarono l’ultimo atto della vita di John Kennedy, da una posizione certamente privilegiata che è quella del giornalista esperto di armi e balistica, soprattutto non statunitense. La teoria che ne ho tratto non indica mandanti, esecutori, disegni e strategie: ciò che più contava nell’analisi dell’assassinio Kennedy, era se si fosse trattato di un complotto o di un gesto solitario e sconsiderato, ipotesi quest’ultima ufficialmente privilegiata dalla Commissione di Inchiesta del Senatore Warren. Volevo quindi dimostrare e non solo supporre, attraverso un’accurata indagine balistica e di ricostruzione della pura operazione militare, non ciò che era stato fatto, ma ciò che non era stato fatto – questo si inconfutabilmente – e perché. Giungendo a provare per eliminazione ciò che sino ad oggi non si è mai potuto dimostrare: l’esistenza di più di un cecchino.

Il mio approccio tuttavia doveva essere dei più rigorosi. In altre parole, dovevo prendere tutto il bagaglio delle cosiddette «prove ufficiali» e gettarlo alle ortiche. Il «Rapporto Warren» era vero e falso allo stesso tempo, le prove di tiro dell’FBI da prendere con le molle, le testimonianze dei presenti neppure da considerare. Mi restava ben poco: la piazza, l’incontestabile film di Zapruder, l’arma e le munizioni ufficialmente imputate dall’assassino. Ma potevo senz’altro calarmi nei panni di Oswald. La sua posizione era nota: la finestra d’angolo al sesto piano del Texas School Book Depository. Addirittura, il mio azzeramento mentale dei fatti acquisiti, prevedeva che Oswald non avesse sparato: questo tuttavia, come vedremo, sarebbe stato ininfluente sul senso dell’indagine. Il percorso del presidente Kennedy e della scorta era noto, come pure la velocità di avanzamento della colonna di veicoli, compresa tra 25 e 30 km/h. La prima operazione da fare era quella di rilevare nuovamente tutte le distanze di tiro possibili entro le quali Oswald avrebbe potuto operare. Per questo ringrazio l’austriaca Swaroski Optik che ha reso disponibile il più sofisticato telemetro al laser oggi sul mercato civile, il modello RF1. Ho quindi individuato 8 punti da cui fare i rilevamenti, che corrispondevano precisamente:

1 – al primo momento in cui Kennedy sarebbe stato visibile a Oswald;

2– al segno di stop prima della curva sotto la finestra di Oswald;

3 – all’ultimo punto prima che la macchina del presidente scomparisse sotto i sempreverdi ancora oggi sulla piazza;

4 – al momento di ricomparsa dal cono degli alberi;

5 – al primo colpo;

6 – al colpo alla testa;

7 – all’ultimo punto utile per il tiro prima del sottopassaggio.

E siamo a sette. L’ottava misurazione sarebbe stata la più importante: dal punto esatto in cui si trovava Kennedy al momento del colpo alla testa, mi sono girato di 90°a sinistra e ho puntato alla staccionata del Knoll, poco distante da dove filmava Zapruder: 33 metri. La linea di tiro alla finestra da quel punto ne misura 85 esatti. Ciò che mi ha colpito come un pugno mettendo piede la prima volta in piazza Dealey, è stato il verificare come un qualunque cacciatore o tiratore scelto, dopo breve analisi del percorso presidenziale e della postazione obbligata – la finestra del sesto piano – avrebbe scelto un altro, ben preciso, settore di tiro: il tragitto di strada dal punto 1 al punto 2. Le ragioni di questa scelta sono molteplici: il bersaglio si sarebbe mosso in linea retta verso il tiratore, diminuendo progressivamente la distanza sino a soli 40 m. Ciò avrebbe costretto il tiratore a una traslazione verso il basso, del punto di mira causato dal movimento, talmente lenta da annullare l’anticipo sul punto di impatto [Il punto virtuale collocato davanti ad un bersaglio mobile al quale bisogna mirare per colpire il bersaglio stesso. Tale punto è funzione della distanza del bersaglio, della velocità più o meno costante del bersaglio in movimento e della velocità del proiettile utilizzato]. La distanza media tra i due punti 1 e 2 sarebbe stata inferiore, cioè pari a 65 m.

Vi sarebbe inoltre stata la possibilità di agire su altri settori del percorso in caso di fallimento o parziale successo, visto che il settore in questione sarebbe stato il primo utile e non l’ultimo. In aggiunta a tutto questo, nella macchina scoperta e molto spaziosa e grazie all’angolo medio di 30° che sarebbe intercorso tra il tiratore al sesto piano del Deposito di libri e il bersaglio a livello strada, il presidente sarebbe stato visibile della vita in su, mentre nel settore scelto da Oswald, JFK era visibile per una esigua e incerta porzione di spalle e della testa (a seconda della posizione del presidente nella vettura). Invece, analizzando la scelta del settore di tiro effettivamente poi utilizzato per l’omicidio, le ipotesi operative erano tutte contro: il corteo avrebbe giustificatamente potuto accelerare, ormai a poche decine di metri dal sottopassaggio ferroviario che delimita, oggi come allora, il perimetro cittadino proprio di Dallas downtown, avendo terminato il bagno di folla a passo d’uomo. Questo settore inoltre offriva uno spazio operativo per il tiro lungo esattamente 80 metri: dal primo punto utile dopo la ricomparsa del Presidente da dietro ai sempreverdi, sino alla scomparsa dietro al Knoll erboso (la collinetta) prima del sottopassaggio. Pur a soli 17 chilometri all’ora, che avrebbero però potuto diventare di più, 80 metri si percorrono in poco più di 16 secondi: maledettamente pochi se si vuole essere certi di abbattere un uomo di cui si vede poco più della testa, in movimento, ad una distanza media di 100 metri e disponendo di un solo tiratore armato di un fucile a ripetizione semplice.

Infine, verifica che mi ha fatto ammutolire ipso facto, mentre tirava al Presidente il 22 di novembre, Oswald aveva il sole in piena faccia e di conseguenza anche nel reticolo, nelle lenti di basso costo di allora (non polarizzate), di riflesso sulle cromature e sulle lamiere delle auto del corteo, sull’asfalto lucido di gomma della piazza. Ho sostato a lungo su quell’angolo della Dealey Plaza, rivoltandomi dentro tutte queste osservazioni.

Improvvisamente, ho trovato il bandolo della matassa, quella teoria sulla quale potevo finalmente applicare i rilevamenti balistici. In termini militari, l’operazione di tiro utilizzata su John Kennedy, si chiama crossfire e gli americani l’hanno sperimentata in Indocina su larga scala. In parole povere, si tratta di coprire uno stesso settore del territorio con più cecchini da postazioni diverse. I tiratori possono anche non conoscere le posizioni degli altri: tutto ciò che devono sapere è che al presentarsi del bersaglio, devono intervenire da quel dato punto a quell’altro, senza ulteriori ordini, con o senza legame temporale.

Oswald non poteva tirare nel settore più ovvio, il primo, semplicemente perché il vero killer, quello sicuro, quello che per distanza non poteva fallire, l’uomo appostato dietro la staccionata del Knoll, da quella posizione non poteva neppure vedere il bersaglio, perché si trovava troppo in basso e comunque a oltre 100 metri di distanza. Oswald molto probabilmente non sapeva della squadra di crossfire: nella sua faciloneria caratteriale e poco spessore intellettuale, si era convinto a sufficienza che dalla finestra del terzo piano avrebbe inchiodato JFK da solo. In questa ottica, si inquadra meglio anche il comportamento di Oswald immediatamente successivo all’omicidio: corre a casa a prendere la pistola, con la quale ammazza l’agente Tippit subito dopo, mentre questi lo contrasta quasi sulla porta della sua abitazione. Domanda: vai ad ammazzare il Presidente degli Stati Uniti, presumi di aver bisogno della pistola e non te la porti direttamente sul luogo dell’appostamento? Oppure, non la nascondi lì qualche tempo prima insieme al fucile, dato che ci vai comunque tutti i giorni per lavoro? La verità è che Oswald si sentiva super coperto, tanto da attentare a Kennedy dalla finestra del suo posto di lavoro, con un fucile a lui stesso intestato, senza usare guanti o altre precauzioni, addirittura lasciando l’arma e i bossoli sparati sul luogo dell’azione. Perché mai dunque è corso a casa a prendere la pistola solo dopo aver sparato? Perché in quel momento, mentre tirava un numero imprecisato di colpi, si è reso conto che in piazza c’era qualcun altro a sparare al Presidente. Improvvisamente si è sentito parte di un crossfire, come in un allucinante flashback dal campo di battaglia. Questa constatazione lo deve aver tramortito, deve aver pensato: «se mi hanno taciuto una cosa così grossa, sono fregato, mi mettono in mezzo, devo difendermi».

Vorrei a questo punto soffermarmi un attimo sulla verifica balistica che ho approntato quale documentazione tecnica a questa indagine. Si tratta senza dubbio della più completa verifica indipendente eseguita sulle modalità dell’assassinio di JFK da un qualunque organo di stampa mondiale. Nell’azzerare quel bagaglio di «prove ufficiali» di cui parlavo in apertura, a maggior ragione era necessario non avvalersi delle prove di tiro svolte in seguito all’assassinio Kennedy dall’Fbi e dall’Us Army. A maggior ragione poi, l’arma era italiana e aveva utilizzato munizioni italiane: era tempo che un giornale italiano gli dedicasse attenzione non solo «storica».

Il concetto di base che ha mosso la prova in questione è presto espresso: eseguire alcuni bersagli fissi di verifica, di tre colpi ciascuno, mirati in appoggio [Cioè nelle stesse condizioni in cui sparò Oswald, appoggiato al vano della finestra], alle distanze corrispondenti ai punti del percorso n°2 (sotto la finestra del 6° piano), 6 (colpo alla testa) e 7 (ultimo punto utile prima del sottopassaggio) descritti in questa indagine, per dimostrare le rosate [il risultato composto sul bersaglio di un certo numero di colpi sparati senza variare il punto di mira: la distanza fra il centro dei due colpi più distanti fra loro, misurata in mm, determina il diametro della rosata] prevedibili con quel tipo di fucile e quindi le percentuali di successo possibilmente conseguibili. Verificare inoltre, mediando, su non meno di 10 serie di tre colpi, la miglior combinazione rosata-tempo a 85 metri, onde compararla con i 5,6 secondi che sarebbero stati necessari a Oswald per sparare i tre colpi fatali. Confermare o meno la migrazione termica della canna del 91-38 (si veda il box specifico sull’arma) sparando, sempre a 85 metri, serie rapide di colpi sempre in appoggio. Verificare infine il tipo di danno terminale portabile con le palle Fmj usate da Oswald su una testa di animale (un suino).

Tutto questo ovviamente con un fucile in tutto e per tutto uguale al Mannlicher-Carcano con ottica 4x usato da Oswald, con le munizioni a palla [proiettile] Fmj utilizzate, sfruttando la capacità di un tiratore senz’altro almeno paritetico a Lee Harvey, notoriamente classificato mediocre dai suoi superiori militari.

Il fattore «bersaglio mobile» pertanto, è un’ aggravante che deve essere aggiunta individualmente: agendo per la verifica come descritto, abbiamo semmai reso le cose più facili. Analizzando più da vicino i settori e le distanze di tiro ipotizzate in questa indagine, a fianco di quelle poi effettivamente impegnate per l’omicidio e individuate dalla commissione Warren, debbono essere introdotti i tempi balistici di volo dei proiettili. Questo calcolo, che ne comporta immediatamente un altro come ben sanno tutti i cacciatori «a palla», cioè l’anticipo, serve a determinare il corretto punto di mira per colpire un bersaglio mobile. Questo punto «virtuale», sempre posizionato davanti al bersaglio sulla retta seguita dallo stesso nel suo movimento, è matematicamente individuabile tenendo conto della velocità media del proiettile impiegato, della velocità di movimento vera o presunta del bersaglio, della distanza del bersaglio dalla bocca da fuoco. Se è vero che entro i 100 metri qualunque calibro moderno a polvere infume presenta traiettorie cosiddette «piatte», ossia con una MRT [Mid-Range Trajectory, valore della curva massima che il proiettile compie dalla volata al bersaglio] vicino a zero e quindi trascurabile (tipicamente la palla «alza» 1 o 2 centimetri anche per i calibri con proiettile più pesante), altrettanto trascurabile non può assolutamente essere l’anticipo sul bersaglio mobile. Un alce in corsa che – per esempio – avanzi alla velocità di 40 Km/h su una retta perpendicolare al tiratore situato diciamo a 150 metri, nel tempo di volo di una palla sparata anche con un calibro magnum super-veloce, si sposterà di 50-60 centimetri nella direzione della sua corsa, mettendo una seria ipoteca sull’efficacia del tiro.

Tornando a JFK, le palle militari da 6,5 che ha utilizzato Oswald, viaggiavano esattamente a 648 metri al secondo (V0) come cronografato scrupolosamente con il fucile della nostra prova e le munizioni originali del 1965, mediando fra le velocità registrate di 12 colpi. Questa V0 corrisponde a 635 m/sec. medi sulla traiettoria V0 – V85. Calcolando una traslazione della testa di JFK secondo una retta di 45° verso l’alto e verso destra rispetto alla visuale del tiratore del sesto piano (Oswald) a 17 Km/h (verificati infallibilmente con il film di Zapruder) si deduce che il bersaglio si allontanava dal tiratore, spostandosi verso l’alto e verso destra, di ben 63,2 cm nei 134 millesimi di secondo impiegati dalla palla a coprire la distanza di 85 metri. Quei 63,2 centimetri corrispondono altresì all’anticipo medio che Oswald avrebbe dovuto calcolare per centrare la testa di Kennedy. Ma non solo: l’anticipo alla distanza del primo colpo (alla gola) avrebbe dovuto essere pari a 42 cm, mentre ai 126 dell’ultimo ipotizzabile tiro utile nella piazza, l’anticipo avrebbe dovuto essere addirittura di 94 centimetri. Diciamo pure che fin qui la verifica è sufficientemente sbalorditiva: ma ancor più lo diventa alla luce di un’altra realtà. L’uomo dietro alla staccionata del Knoll, pur soffrendo di una posizione a perpendicolo rispetto alla traiettoria della vettura presidenziale che traslava alla velocità di 17km/h, con un’arma in un calibro di velocità analoga di 645 m/sec medi V0-V33, avrebbe dovuto calcolare un anticipo sul punto di impatto pari a soli 23 centimetri. Anticipo che sarebbe rimasto comunque costante dal suo punto di tiro per almeno 5-6 secondi e quindi di impostazione automatica per un tiratore esperto (addirittura pre-tarando l’ottica), in grado di sparare in quel lasso di tempo 2-3 colpi.

Ciò che sconvolge qualunque cacciatore abituato ad usare la carabina a ripetizione semplice su medie e lunghe distanze, è proprio questa scelta del tratto di percorso per agire sul corteo presidenziale: il bersaglio mobile si sarebbe allontanato progressivamente dal tiratore del sesto piano, obbligandolo a computare in pochi secondi tre tiri difficili, con anticipi notevolmente diversi l’uno dall’altro e progressivamente crescenti. Condizioni di tiro assolutamente improponibili anche per un tiratore eccezionale, soprattutto tenendo conto del fattore tempo. Se a questo quadro «balistico» aggiungiamo il fattore della migrazione termica della canna tipica del Carcano 91-38 in questo articolo dimostrata ampiamente e lamentata da ogni tiratore scelto (vedi box), la possibilità che Oswald abbia centrato Kennedy con 2 colpi dei 3 sparati in 5-6 secondi appare più legata al miracoloso che al probatorio. Un’altra considerazione deve essere fatta sulla scelta dei proiettili che avrebbe usato Oswald: munizioni militari, con palle Fmj, di cui un unico esemplare è stato trovato sulle barelle utilizzate per trasportare i passeggeri della vettura presidenziale al Parkland Memorial Hospital. Il protettile che secondo la Commissione Warren fu il primo colpo che avrebbe colpito Kennedy alla gola – e poi il Governatore del Texas John Connally (seduto sul sedile davanti) alla schiena – caduto in ospedale in seguito al massaggio cardiaco, è chiaramente intatto, come indeformato nella maniera più assoluta è il proiettile dello stesso tipo sparato nel 1944 e recuperato dal campo di battaglia (che pubblichiamo), identico a quello di Dallas. Questo tipo di proiettile è assolutamente inidoneo ad uccidere efficacemente alcuno. Può attraversare un intero tronco d’albero (come peraltro ha accertato la Commissione Warren) senza neppure smussarsi. A meno che non si prenda un uomo o animale alla testa, o ancora diritto al cuore, il soggetto non riceverà alcuna ferita mortale. Celebre è il caso dell’assassino di Giacomo Matteotti, Dumini, il quale venne passato per le armi dagli inglesi in nordafrica nel 1941: 17 palle calibro 9 Parabellum Fmj sparate da pochi metri con uno Sten, trapassarono il suo corpo in altrettanti punti non vitali, ferendolo soltanto e lasciandolo comunque serenamente in vita fino a veneranda età. Dumini scrisse anche un libro su questa sua esecuzione, intitolato appunto «17 Colpi».

Ecco quindi che la scelta di queste munizioni contrasta fortemente con le aspettative dell’attentato e soprattutto con l’immagine proposta dal fotogramma 313 del filmato di Zapruder, nel quale si vede la testa di Kennedy «esplodere» sotto il colpo mortale, arretrando vistosamente: nulla di tutto questo.

Una palla calibro 6,5 Fmj sparata in una testa umana causa effetti poco visibili. Foro omocalibro [ovvero della stessa larghezza della palla] da un lato, foro omocalibro dall’altro, con cessione di energia quasi zero e corrispondenti movimenti della testa contrari alla traiettoria della palla quasi inavvertibili. La palla che ha colpito al parietale destro Kennedy, asportando un terzo posteriore della scatola cranica e della materia celebrale del presidente, nel film di Zapruder aveva tutte le connotazioni di una calibro .30 Silver Tip da 150 o 180 grani, da poco lanciata sul mercato e in gran voga in quegli anni fra i cacciatori di cervi per il suo potere di arresto fulminante, sparata probabilmente da un .30-06 Springfield o da un .308. Onde comprovare una volta per tutte questa realtà balistica terminale del tipo di palla di ordinanza calibro 6,5 in questione su uomo o animale, ho sperimentato su una testa di suino i reali effetti di danno biologico. Per questa prova era necessario che la testa presentasse spessori parietali e massa totale tali da consentire un bersaglio analogo, per dinamica molecolare, a quella umana. A tal scopo, ho agito per poter eseguire la prova sulla testa di suino, dopo soli 18 minuti dall’abbattimento dell’animale, avendola in ogni caso conservata termicamente per quel breve lasso di tempo, in modo da mantenere praticamente inalterata la dinamica molecolare dei liquidi e delle masse. La rigorosità scientifica che tuttavia mi sono ostinato ad osservare, si è rivelata del tutto superflua: in tutti e tre i casi (3 colpi sparati in diverse zone del cranio di suino) il proiettile non ha subito la benché minima deformazione, come d’altro canto la testa non ha accennato il benché minimo movimento contrario alla direzione del colpo, non essendoci in realtà alcuna cessione di energia dall’uno all’altra. Aggiungo in conclusione che tutti e tre i proiettili hanno attraversato la scatola cranica, proseguendo poi la loro corsa trapassando circa 15 centimetri di elenchi telefonici e giornali imbevuti d’acqua, prima di iniziare a deformarsi, cedendo energia per poi successivamente fermarsi. Riassumendo, il diametro del foro di entrata e di uscita di un proiettile di ex-ordinanza italiana calibro 6,5 mm causati da una qualunque traiettoria che interessi un corpo umano, saranno sempre rigorosamente uguali. Parimenti, entro distanze di 200 metri dal bersaglio, tali proiettili non subiscono deformazione alcuna in seguito all’impatto con il corpo umano.

John Fitzgerald Kennedy è morto. Questo inconfutabile fatto dovrebbe costituire risposta sufficiente alle domande sui perché. È la giustizia degli uomini, delle moderne società in convulso divenire, delle rivalità razziali, della ricerca di supremazia di un popolo, di una casta, di un gruppo di potere. Se se è arrivati ad un complotto per assassinare prima John e poi Bob, ambiziosi rampolli bostoniani, mi sembra ovvio che chiunque l’abbia messo in atto, aveva le sue buonissime ragioni per rischiare. Al contrario, la famiglia Kennedy doveva averlo messo nel conto: tuttavia, il compito di indagare e garantire lo stato di diritto è sacrosanto in un Paese civile. Pertanto, i mandanti vanno perseguiti tanto quanti gli esecutori materiali. Certamente però, l’indagine sul chi e sul perché ha davvero significato solo quando ci si viene a trovare dinanzi ad eventi che apparentemente non trovano giustificazioni di sorta. L’assassinio di Kennedy, viceversa, di giustificazioni politiche ne offriva da vendere.

Ciò che a mio avviso bisogna invece tenacemente rincorrere è la realtà materiale, che non solo rappresenta la via maestra per poi proseguire nell’accertamento della realtà ideologica, ma quantomeno sgombera il campo da depistaggi, insabbiamenti, strumentalizzazioni. La recente storia italiana ne è piena e di molti fatti celebri e dolorosamente luttuosi della Repubblica ormai si sono addirittura perduti i connotati materiali, tanto alte e ramificate sono diventate le tesi politiche ed ideologiche intorno ad essi costruiti. In piazza Dealey a Dallas vi erano almeno due cecchini, forse tre e forse quattro o più, magari disseminati più a valle lungo il percorso del corteo presidenziale e che mai hanno dovuto agire. Quando il complotto giunse al giorno destinato per l’attentato, le persone a sapere erano decine, il rischio era massimo, un fallimento non poteva essere contemplato: proprio per queste ragioni, chiunque decidesse di sparare ad un presidente degli Stati Uniti su un’automobile in movimento, sarebbe folle se affidasse tutto ad un solo tiratore.

Inoltre, come è possibile che sul mandato di arresto di Oswald, stilato un’ora e mezza dopo la morte di Kennedy, quando ancora non si sapeva se il Governatore Connally era vivo, né il capitano Fritz era ritornato dal Texas Book Depository con il fucile trovato al sesto piano, né altra minima indagine era stata fatta, venne scritto testualmente e conclusivamente «quest’uomo ha ucciso il Presidente Kennedy, l’Agente Tippit. e ferito il Governatore Connally»? Come è possibile, se non ipotizzando che tutto fosse stato preparato nei minimi dettagli, in primo luogo con la connivenza e collaborazione della Polizia di Dallas? E infine, come non credere alla teoria del complotto e del coinvolgimento della Polizia di Dallas, dato che Oswald fu ucciso con un colpo a bruciapelo solo 14 ore dopo il suo arresto nel garage della stazione di polizia da un Jack Ruby, malavitoso texano malato terminale di cancro? Ma ciò che lascia noi tutti con un senso di disagio profondo, è il sospetto che il vero killer di John Fitzgerald Kennedy sia vivo. Forse è un tranquillo poliziotto in pensione, attorniato da figli e nipotini, ai quali può serenamente raccontare centinaia di storie di servizio. Meno una, la più tremenda ed agghiacciante.

Nicola Bandini

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