Una riforma giusta nel momento sbagliato
La riforma della giustizia in Italia approvata dal Senato segna un passo importante verso la modernizzazione del sistema giudiziario: separazione delle carriere, maggiore trasparenza e revisione del Consiglio Superiore della Magistratura.
Il contenuto è sensato, coerente, necessario.
Eppure, la tempistica rivela il vero disegno politico: proporre una riforma finalmente condivisibile proprio mentre gli elettori si allontanano dalle urne, in un clima di disillusione crescente, non è casuale.
È il momento in cui il potere rischia la delegittimazione, e allora tende una mano — non per riformarsi, ma per riaccreditarsi. Ed essendo una riforma costituzionale deve passare dall’approvazione referendaria da parte dei cittadini in primavera 2026.
Il paradosso del consenso: quando il silenzio spaventa il potere
Negli ultimi anni, la disaffezione elettorale ha raggiunto livelli storici. Milioni di cittadini hanno smesso di votare non per pigrizia o indifferenza, ma come atto politico di sfiducia.
È la forma più silenziosa e devastante di opposizione: togliere ossigeno al sistema, negargli la forza simbolica del consenso.
Ed è proprio in questo vuoto che nasce la riforma della giustizia in Italia.
Non perché il potere abbia finalmente ascoltato i cittadini, ma perché ha sentito scricchiolare il pavimento sotto i piedi. Quando la legittimazione vacilla, il potere diventa generoso: concede ciò che prima negava, pur di riportare il popolo al voto.
La qualità della riforma non cancella la strategia
Sul piano tecnico, la riforma è quasi inattaccabile.
Separare le carriere, ridurre le commistioni fra giudici e pubblici ministeri, semplificare le nomine del CSM: sono tutte misure che migliorano la funzionalità dello Stato e rendono la giustizia più trasparente.
Ma la bontà del contenuto non annulla la logica del contesto.
È una riforma-escamotage: costruita per convincere gli elettori a tornare alle urne, per riattivare il ciclo del consenso nel momento in cui stava per spezzarsi.
Chi si reca al referendum per “premiare la buona politica” rischia di restituire legittimazione a un sistema che proprio l’astensione stava delegittimando.
La trappola del ritorno alle urne
Il referendum confermativo non prevede quorum.
Questo significa che anche una partecipazione ridotta può bastare per convalidare il risultato e offrire al potere la legittimità simbolica che aveva perso.
La trappola, dunque, non è nel contenuto della riforma ma nel meccanismo politico che la circonda: convincere gli elettori a rientrare nella logica della rappresentanza proprio quando ne stavano uscendo.
Si crea un paradosso: più la riforma è giusta, più funziona come richiamo.
E il cittadino, spinto dal desiderio di miglioramento, rischia di rientrare docilmente nel recinto da cui stava finalmente evadendo.
Lasciare morire Sansone con i filistei
La tentazione di votare “sì” per il merito del provvedimento è comprensibile, ma il gesto politico più lucido potrebbe essere un altro: lasciare morire il sistema con le sue stesse contraddizioni.
Continuare a negargli legittimità, anche quando sembra pentito, è l’unico modo per obbligarlo a cedere davvero il potere e non solo a ridecorarlo.
Sansone, nell’atto di distruggere il tempio, non lo fa per vendetta, ma per liberazione: accetta di cadere pur di spezzare la struttura che lo teneva prigioniero.
Oggi, il cittadino si trova di fronte allo stesso dilemma: scegliere se accettare un cambiamento utile ma manipolatorio, o lasciare che il vecchio sistema crolli del tutto, perché solo dalle macerie può nascere un nuovo ordine politico davvero libero.
Conclusione: non confondere la riforma con la rinascita
La riforma della giustizia in Italia rappresenta una correzione necessaria, ma non un segno di risveglio democratico. È un’operazione di sopravvivenza del potere, non di rigenerazione del sistema.
Sostenere la riforma senza partecipare al gioco politico che la accompagna è quasi impossibile: chi torna alle urne ridà forza al meccanismo da cui si voleva affrancare.
Per questo, la posizione più coerente non è contro la riforma, ma contro il modo in cui il potere tenta di usarla per riconquistare la propria legittimità.
Meglio lasciar morire Sansone con tutti i filistei che rimettersi la catena al collo credendo sia una medaglia.
