Non di rado, articoli di cronaca riportano casi di figli allontanati in modo forzoso dalla famiglia naturale.
Questi dolorosi eventi ci fanno riflettere su un dramma esistenziale: bambini strappati – ci piaccia o no, di strappo si tratta- ai propri genitori per una serie di motivi, alcuni validissimi, altri potrebbero apparire incomprensibili, ma la questione è: “al bene psicofisico del minore si pensa mai abbastanza?”.
Anche allontanarlo da un genitore violento, che rientra tra le motivazioni più che logiche, richiede un certo “tatto”. Un episodio di sottrazione coatta viene semplicemente etichettato come “caso”, ma dietro il “caso” ci sono esseri umani, bambini, genitori, nonni… che soffrono, che si sono ammalati a causa del distacco. Familiari che hanno visto tutto il loro mondo frantumarsi, spesso senza rendersi conto del motivo per il quale è stato tolto loro il bene più prezioso.
In quali circostanze colui che rappresenta la legge può allontanare un figlio dalla famiglia di origine?
Voglio partire da una definizione che David G. Gil tenta di dare alla sindrome del bambino maltrattato “Abuso del minore è ogni atto, o inazione, da parte d’individui, istituzioni, o della società complessiva, e le condizioni che ne conseguono, in quanto deprivano i bambini di uguali diritti sociali, economici e politici, e/o interferiscono con il loro sviluppo ottimale”.
Allontanare un bambino dalla propria madre, o padre, o più in generale dalla famiglia, appare come un atto crudele.
A volte si presentano situazioni in cui questo atto è necessario per tutelare il benessere del piccolo, vale a dire nei casi in cui il contesto famigliare non è adeguato e pone il minore a rischio di abusi di vario genere, in contesti in cui viene compromessa la sua salute psico-fisica, o la sua educazione.
In tali circostanze interviene l’assistente sociale, che segnala al giudice le condizioni di vita del bambino.
Sulla base delle informazioni raccolte, il giudice decide l’inserimento o meno del minore presso una nuova dimora.
Quando, per legge, un bambino dev’essere tolto alla famiglia?
Innanzitutto lo stato economico precario, in altre parole la povertà, non è sufficiente per strappare un figlio alla famiglia di origine, la legge parla chiaro a riguardo: “le condizioni di indigenza dei genitori o di chi esercita la patria potestà non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia” – Legge 28 marzo 2001, n. 149 “Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile”.
In quali casi, allora, la legge prevede l’allontanamento del minore? Quando, con estrema professionalità, si valuta l’esistenza di una situazione di incuria tale che può esporre il minore a rischio di violenza fisica, sessuale, psichica, di nutrizione inadeguata, in caso di genitori dipendenti da alcol, droga, o implicati nel giro della prostituzione, anche indirettamente.
In tali situazioni la già citata legge prevede che il minore “temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”.
In assenza di familiari, il minore viene affidato a una casa famiglia o a un istituto pubblico o privato vicino alla sua famiglia, ovviamente con la stessa premura con la quale si segnalano per il minore situazioni di degrado e pericolo in famiglia, si auspicano ispezioni altrettanto premurose su questi enti che accolgono bambini e adolescenti in condizioni di estremo disagio e dolore per essere stati strappati dai loro affetti, e controlli e test periodici per tutti gli operatori.